Dead Can Dance: Dionysus Recensione

  • Artista: Dead Can Dance
  • Titolo: Dionysus
  • Genere: World Music/Etnica
  • Data di uscita: 2 novembre 2018
  • Etichetta: PIAS

Quando la propria carriera musicale è stata sempre improntata sulla perfezione maniacale degli arrangiamenti e l’eleganza delle melodie, 16 anni di scioglimento e silenzio possono passare in un lampo appena c’è l’album del ritorno.

Ma questo non sempre è un bene.

I Dead Can Dance, ovvero il duo anglo-australiano costituito dal polistrumentista Brendan Perry e dalla voce inconfondibile di Lisa Gerrard, tornarono nel 2012 con Anastasis, ancora una volta su altissimi livelli. Ma la formula non sembrava si fosse evoluta: i Dead Can Dance propongono tuttora musica sognante e a tratti improvvisamente violenta, sono passati dal Gothic mortifero degli inizi alla più libera World Music citando atmosfere latine, africane, mediterranee, europee, greche tra le altre.

E ripetendo il tutto sempre uguale a intervalli irregolari.

Così il 2 novembre 2018 è uscito Dionysus, già dal titolo chiaramente ispirato - come era stato per il precedente Anastasis - dal mondo ellenico classico.

Un disco che per i fan della band sarà di certo un regalo apprezzato per come è stato realizzato in maniera al solito impeccabile, ma che non aggiunge proprio niente di nuovo a quanto già fatto dai Dead Can Dance in passato (e non solo da loro: uno su tutti il duo tedesco-rumeno Enigma attivo dal 1990).

L’unica novità se vogliamo sta nella proposta dei brani, non più tracce separate in media di 5 minuti di durata, ma due nette tranche (definite Act I e II) di rispettivamente 16:42 e 19:28 che comprendono in totale 7 brani dai titoli interessanti ma un po’ banali (li traduco direttamente):

Atto 1

  • Nato dal mare
  • Liberatore di menti
  • Danza delle Baccanti

Atto 2

  • La montagna
  • L’invocazione
  • La foresta
  • Lo psicopompo

Lo psicopompo è di certo il più difficile da capire: sarebbe una figura in genere divina che accompagna le anime dei defunti e deriva, guarda un po’, dal greco!

Un’altra scelta bizzarra se vogliamo è la copertina: nonostante il tema dichiarato siano i riti primaverili in Grecia, essa rappresenta invece il Messico con la foto di un teschio umano ricamato a perline dalle forti tinte come in uso tra gli Huichol della Sierra Madre.

Tutto normale se si considera che la schizofrenia geografica prosegue con le registrazioni che sono avvenute ai Ker Landelle Studios in Bretagna, estremo e freddo nord della Francia. Niente di più lontano dalle soleggiate coste mediterranee.

Infine mixato a Londra.

Nonostante le latitudini disparate il duo ha mantenuto un’unità di atmosfere che in larghe spirali, come tipico dei Dead Can Dance vecchia maniera, si estendono sino a rimanere nel fondo dei nostri spiriti.

I ritmi sono dilatati ma non troppo nonostante la durata dei due atti: si parte con Sea Borne che dopo un iniziale sciabordio di onde ci prende letteralmente per mano (complice un vero battito di mani che cadenza il tutto) e insieme a cimbali e trombe che all’improvviso irrompono con fare “ritmetrico” (perdonatemi questo neologismo appena inventato, ma molto adatto se ci pensate bene) fa entrare nell’antico mondo dei riti misterici per il bene del raccolto sino a tornare alle onde iniziali.

A seguire Liberator of minds, accompagnato da versi animali, sembra una camminata notturna nel deserto. Già sentito, ma al solito efficace.

Devo ricordarvi che l’unica vera pecca che rende questo disco quasi inutile è la sua forte somiglianza sia nelle musiche che nelle tematiche con molti altri lavori della band di London-Melbourne, non la qualità intrinseca della esecuzione che invece rimane molto alta se preso singolarmente.

Forse il brano migliore a livello acustico è Dance of the Bacchantes.

Baccanti dalle voci roche e fiere danzano in tondo e come per magia ci si ritrova in un campo di grano ad ammirarle, immaginandole con veli bianchi che non disdegnano di cadere ad ogni passo. Grida di guerra echeggiano mentre un rullante solleva il tutto. Prendete una spiga di grano e lanciatevi nella danza, le Baccanti ve lo ordinano! O me lo sono immaginato?? Provare per credere! Dopo aver sentito questo pezzo un paio di volte viene voglia di colorarsi il viso e andare in guerra. Le urla senza vere e proprie parole aiutano a usare la propria voce, un altro espediente spesso ordito dai Dead Can Dance che invitano così al canto liberatorio.

A livello visivo invece è da menzionare il brano successivo: The mountain.

Esso gode infatti di un video ufficiale che circola su Youtube (non presente nella versione cd base).

La musica non è niente di nuovo, ma la frapposizione di immagini di bimbi dai volti bianchi con una capra dello stesso colore e gli alberi tutt’attorno lascia un vago senso di esotismo.

Video però che non si eleva mai, divenendo una serie di belle immagini al rallentatore. Comunque da vedere soprattutto per gli amanti dello stile psichedelico.

Brendan Perry, nonostante l’età che avanza, mantiene una voce profonda e godibile. Spesso questo disco mostra suoni naturali, soprattutto in apertura e chiusura delle partiture. A concludere il brano infatti ci pensa la capra!

The invocation e Psychopomp non aggiungono niente di nuovo ma sanciscono il fatto che il secondo atto sia più debole del primo, forse grazie alla forza espressa in particolare da Dance of the Bacchantes. Lasciano l’amaro in bocca.

Il disco è dedicato a Frank Lovece, componente addetto alla drum machine dei Primitive Calculators, band Post-Punk australiana attiva nella ondata di fine Settanta e organizzatore di concerti (The Little Bands Nights) da cui emersero i Dead Can Dance stessi. Morto a gennaio 2018, era nato in Calabria lasciata a 2 anni direzione Australia: la cultura mediterranea ha chiuso il cerchio.  

Voto:

  • 6/10